04/01/2022

Stare insieme vale più di una medicina

Fonte: iodonna.it - gennaio 2022

Dobbiamo al fuoco, sembra, la nostra socialità. Gli esseri umani che ci hanno preceduti hanno imparato dalle fiamme a difendersi, a scaldarsi, a mangiare i cibi cotti, ma non solo. È intorno ai falò che le giornate si sono allungate e che gli antenati hanno preso a raccontarsi le storie di caccia, e di dolori, e di guarigioni.

Finché, sera dopo sera, anno dopo anno, la bellezza di quelle parole da scambiarsi è rimasta così impressa nel cervello da diventare necessità. Noi abbiamo bisogno di stare con gli altri.

Amici intorno a un falò

Lo studio sul ruolo del fuoco nell’evoluzione umana è stato condotto dall’Università dello Utah (pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences) e ha spiegato per la prima volta che la nostra capacità di fare gruppo risale proprio al ritrovarsi accovacciati nella notte rischiarata dal rosso.

Oggi, dinanzi a un caminetto che ci ipnotizza, vicini alle luci di un albero di Natale o seduti intorno a un tavolo, proviamo gioia nel condividere momenti con le altre persone. Voler bene ci fa bene, potremmo dire.

«Prendersi cura del proprio corpo è importante, ma anche prendersi cura dei propri rapporti sociali è una forma di cura di sé» ha spiegato Robert Waldinger, professore di psichiatria all’Harvard Medical School. Dirige uno degli studi più lunghi mai condotti sulla vita adulta (l’Harvard Study of Adult Development), le cui conclusioni appaiono chiare: le relazioni profonde rendono felici più del denaro o della fama, proteggono dalla tristezza e contribuiscono a ritardare il declino mentale e fisico.

I grandi amori e i grandi amici hanno un peso sulla longevità potenzialmente superiore rispetto alla ricchezza, all’intelligenza e agli stessi geni che abbiamo ereditato.

Lo studio: più amore, più salute

La socialità non è un aspetto semplice da misurare. L’indagine di Harvard è stata impostata a partire dagli anni Trenta. Le informazioni sono state archiviate in una piccola stanza nell’Università di Boston, dentro schedari che contengono i dettagli sui partecipanti, dallo stato di salute agli amici, dai test sulle performance intellettuali alle risonanze magnetiche del cervello.

Mentre Hitler in Europa mandava a morte milioni di ebrei, negli Stati Uniti gli scienziati iniziavano una raccolta di dati che avrebbe mostrato come la chiave di un’esistenza soddisfacente siano gli affetti.

I ricercatori sono partiti fra il 1938 e il 1944 con una serie di esami su 268 studenti del college dal curriculum scolastico promettente: tra gli altri, il futuro presidente John Fitzgerald Kennedy e Ben Bradlee, che sarebbe stato alla guida del Washington Post durante lo scandalo Watergate.

L’obiettivo era di seguirli per una ventina d’anni, ma lo studio è andato avanti e i gruppi di partecipanti si sono ampliati. Sono del primo direttore del progetto, George Vaillant, le dichiarazioni che hanno lasciato di stucco il mondo accademico, nel 2009: «Guardando i risultati, mi sono reso conto che l’unica cosa che conta davvero nella vita sono i rapporti con le altre persone: è avere relazioni affettive che fa invecchiare meglio, è l’amore il segreto del benessere».

Lo psichiatra Waldinger, che ha poi preso in mano l ‘indagine, non si è discostato dal predecessore: «La qualità delle relazioni delle persone è molto più importante di quello che pensavamo, anche per la salute».

Siamo animali sociali

I legami personali forti lasciano segni nelle emozioni, nei sentimenti, nel modo di pensare. I professori di Harvard, usando le tecnologie di imaging e cioè dando un’occhiata al cervello di alcuni partecipanti allo studio, hanno scoperto che le persone più appagate dalla vita sociale avevano un numero maggiore di sinapsi, ossia di connessioni tra i neuroni, rispetto a quanti erano meno soddisfatti.

Come scrisse John Donne, «nessun uomo è un’isola, completo in se stesso». Lo sosteneva ancor prima Aristotele, nella sua Politica, che l’uomo è un animale sociale. Lo prova oggi la scienza: in alcune ricerche si è visto che le persone sole hanno livelli elevatissimi di infiammazione cronica, paragonabili a quelli dei fumatori incalliti.

E perdere i contatti con gli altri, dopo i cinquant’anni, può essere letale due volte di più dell’obesità e quasi quanto la miseria nera, secondo uno studio del 2014 dell’Università di Chicago.

La solitudine dei telefonini

Nel libro Schiavi d’amore (appena pubblicato dalle Edizioni San Paolo), gli psicoterapeuti Tonino Cantelmi, Emiliano Lambiase e Michela Pensavalli mettono in guardia da una nuova forma di solitudine tipica dell’epoca in cui viviamo, l’epoca dell ‘iperconnessione.

L’uso compulsivo degli smartphone e di altri dispositivi, si legge nel saggio, abbassa l’intensità e la durata dei legami tra le persone: «Sempre più frequentemente, le nuove generazioni preferiscono delegare anche le discussioni più delicate a un messaggio Whatsapp, faticano a incrociare gli occhi dell’altro e a parlarsi vis à vis perché di persona ci si sente più “scoperti “, quasi nudi, vulnerabili, dal momento che non si possono celare le proprie imperfezioni, le parti di noi più incerte, le nostre ambivalenze. Iniziano pertanto a prevalere interazioni sociali virtualizzate, rapidamente realizzabili, leggere, e che altrettanto rapidamente e semplicemente possono essere sospese, interrotte, bloccate».

Contro i legami liquidi

Il bisogno di una comunicazione profonda però è connaturato, rimane, e le connessioni virtuali lo colmano in maniera superficiale, senza soddisfarlo. «Le nuove modalità relazionali» scrivono gli autori in Schiavi d’amore, «rispondono sempre di più a una dinamica di appagamento del piacere individuale, del tutto simile a quella messa in atto in tutti i tipi di dipendenza». Fissare il telefono invece di parlarsi è una forma di separazione.
Zygmunt Bauman qualche anno fa ha detto che ci siamo dimenticati della felicità, che alla sua costruzione abbiamo sostituito il desiderio, e il desiderio del desiderio, super veloce, dopato di tecnologia, che non vede né vuole problemi, che costruisce muri tra noi e gli altri.
Il sociologo polacco ha coniato la definizione celeberrima di modernità liquida per definire la tendenza dei giorni nostri alla rarefazione di ogni legame. La soluzione per uscirne non può che essere antica quanto l’uomo: amare, vedersi, parlare.
 

Articolo di Eliana Liotta

Fonte: IoDonna