18/02/2021
Pasquale non ti arrendere all’eutanasia
Fonte: Punto Famiglia del 18/02/2021
Di Giovanna Abbagnara
Tra le pagine di Repubblica viene accolto e rilanciato l’appello di un ristoratore, Pasquale Centrone, anima del locale da Tuccino a Polignano a Mare. Da 13 anni è ammalato di sclerosi laterale amiotrofica, la Sla, e da nove anni fa i conti con la respirazione meccanica. Rivolgendosi al governatore Michele Emiliano e all’assessore alla Salute, Pier Luigi Lopalco, Pasquale chiede l’eutanasia. “Basta, sono stanco. Non mi piace più vivere in questo modo: è diventata un’agonia, tolgo il disturbo”. Il presidente Anelli fa da sponda al “grido di dolore” del ristoratore. “Non possiamo rimanere sordi: è nostro dovere etico di medici, di persone, dargli voce e farlo risuonare nelle sedi competenti. Lo dice il nostro Codice, lo dice la Costituzione”.
Valanghe di messaggi a sostegno della volontà del ristoratore. Il problema reale di Pasquale sembrerebbe la necessità di avere un’assistenza più adeguata, professionale e continuativa. Per risollevarlo da questa sua prostrazione del tutto comprensibile dovremmo dunque chiedere un’assistenza sanitaria più adeguata e da un accompagnamento umano stabile. Si preferisce invece subito implorare la strada dell’eutanasia. Si ripete il copione della vicenda di Dj Fabo e speriamo non l’epilogo.
Ai giornali e ai media che costruiscono l’opinione pubblica mi verrebbe da chiedere: “Perché non date la parola anche a quei malati gravi che invece non vogliono morire ma domandano semplicemente di avere il necessario sostegno economico da parte di uno Stato pronto a concedere la morte ma poco attento al sostegno delle famiglie?”.
A chi invece ha commentato la vicenda dicendo che la sofferenza è inutile, “perché procrastinarla quando si può mettere fine al dolore?”, risponderei con le parole di un noto psichiatra italiano, Tonino Cantelmi: “Ho visto nelle agonie ricomporsi relazioni autentiche e sperimentare momenti di intensa vicinanza, di riscoperta dell’altro e di amore. Ho visto, anche per esperienza personale, oltre che professionale, persone con Alzheimer provare momenti di rinnovata felicità. Ho visto famiglie riscoprire l’autenticità attraverso il dramma. Ho visto persone morire con una dignità autentica e solenne. Dico che a questo dovremmo guardare e tendere, a questo morire dignitoso, rispettoso della persona, piuttosto che colludere con la costruzione di una società mortifera. Non è scontato e nient’affatto semplice, ma in definitiva credo che per dire di no ad ogni forma di eutanasia, occorra riscoprire il senso e il significato della sofferenza”.
La lotta al dolore la dobbiamo perseguire ma con le armi giuste. Questa lotta da sempre fa tutt’uno con la storia della medicina. Sollevare le sofferenze fisiche, psichiche e spirituali dell’altro è un atto di squisita umanità: “sedare dolorem”, recita un antico aforisma medico, “est opus divinum”. “Lenire il dolore è opera divina”. In questo ambito si deve registrare il progresso importante rappresentato dal sorgere e dall’affermarsi di una branca specialistica della medicina, detta medicina palliativa. Linea adottata dal Magistero della Chiesa. Senza mezzi termini il Catechismo della Chiesa Cattolica qualifica le cure palliative come “una forma eccellente di carità disinteressata” (n. 2279). In questo modo si aiuta il paziente a vivere con dignità la stagione difficile della malattia e si umanizza il morire. I comportamenti indirizzati a procurare la morte di una persona sofferente non sono una risposta etica al dramma del dolore: bisogna eliminare la sofferenza, non i sofferenti.
Ma non basta. Bisogna anche ricordare che il dolore umano, in quanto umano, non è mai semplicemente un fatto biologico da affrontare sul solo versante biomedico. Molto spesso si dice che la fede possa aiutare a superare la tragica realtà del dolore come per magia, ma, al contrario, il dolore e soprattutto il dolore innocente sono per il credente uno scandalo forse ancora più grande che per gli altri uomini. A buon diritto un cristiano può chiedersi: “Se Dio è buono, perché infligge o permette che siano inflitte alle creature innocenti e da Lui amate il dolore e la morte?”. Il nostro dolore e la nostra morte ci fanno pensare che Dio sia assente o indifferente.
La fede cristiana non fugge la sfida del dolore. Noi sappiamo che Dio non abbandona l’uomo al suo destino e, per puro amore, si fa uno con l’uomo, gli si pone al fianco e percorre sino in fondo la via della condizione umana. Dio è presente nella fede del credente che coglie accanto a sé la presenza consolante dell’Uomo crocifisso ed è presente tangibilmente in tutti coloro che servono con amore il loro fratello sofferente. Dio è dove si soffre, Dio è presente dove siamo capaci di prendere per mano chi soffre e se ne sta andando. Come dovremmo fare anche per Pasquale.
Fonte: puntofamniglia