19/09/2016
L’eutanasia si diffonde nella società triste, preda della depressione
No. Non è possibile restare indifferenti. E non è possibile non provare un brivido di fronte al giubilo di qualcuno che in queste ore celebra il Belgio come un faro di civiltà per aver registrato un (triste, tristissimo) primato, quello di essere il primo Paese in cui un minorenne ha subito l’eutanasia. Già, il Belgio, dove un adolescente su 5 pensa al suicidio. E 1 su 10 lo fa. Dove la prevalenza lifetime della sofferenza mentale è, insieme ad Olanda e Francia (tutti paesi in cui c’è una qualche legge che consente forme di eutanasia) la più alta della cosiddetta Europa evoluta: 29% (in Italia: 18%). Uno studio europeo sul consumo di cocaina in 19 grandi città colloca l’Italia al nono posto (Milano). E chi c’è al primo posto? Il Belgio (Anversa), con 2 chili e mezzo al giorno ogni 1000 abitanti! Per la cannabis stravince l’Olanda (Amsterdam). Sì certo, gli studi che basano la felicità sul Pil dicono altri dati. Ma questo è il punto: quella specie di felicità, basata sul Pil e su una presunta sensazione di libertà, è una parodia dell’umano. E guarda caso,
dove il Pil è alto, anche la sofferenza mentale lo è. E puntualmente fa capolino l’eutanasia.
Si sono affrettati a dire che la prima vittima minorenne dell’eutanasia non fosse depressa, anzi che ha espresso un consenso pieno e con lei anche i genitori. Davvero? Un adolescente, che non viene ritenuto capace di votare, di sposarsi, di trattare affari economici e persino di gestire la sua sessualità, è davvero così maturo per esprimere una volontà tanto complessa come scegliere di morire? E davvero un adolescente (e i suoi genitori) provato da una malattia devastante può essere sereno, di buon umore, certamente non depresso, come si sono catapultati a sostenere? E ucciderlo è davvero l’unico modo per consentirgli una morte dignitosa, come se le cure palliative e la gestione medica del dolore non fossero efficaci? Io mi sento di rispondere no:
non credo alla libera e autentica scelta da parte di persone così duramente provate e vulnerabili.
Credo che la risposta dignitosa sia un’altra: non lasciare soli chi si trova in queste drammatiche vicende. Le scelte eutanasiche rispondono a logiche di depressione, di disperazione, di solitudine. E a logiche economiche. Forse le logiche economiche sfruttano la disperazione: stiamo creando le premesse per una società dove non ci sarà posto, per esempio, per le persone affette da Alzheimer (come accade appunto in Belgio ed Olanda), persone la cui mente è abitata da una straniera bizzarra, la demenza, davvero gli ultimi degli ultimi, indifesi e economicamente inutili (oltre che costosi).
L’eutanasia è lo specchio di una società triste, dove la depressione (così recita l’Oms) sarà la principale causa di invalidità entro 3-4 anni.
E infine: non credo che la sofferenza sia di per sé priva di senso e di significato. Ho visto nelle agonie ricomporsi relazioni autentiche e sperimentare momenti di intensa vicinanza, di riscoperta dell’altro e di amore. Ho visto, anche per esperienza personale, oltre che professionale, persone con Alzheimer provare momenti di rinnovata felicità. Ho visto famiglie riscoprire l’autenticità attraverso il dramma. Ho visto persone morire con una dignità autentica e solenne. Dico che a questo dovremmo guardare e tendere, a questo morire dignitoso, rispettoso della persona, piuttosto che colludere con la costruzione di una società mortifera. Non è scontato e nient’affatto semplice, ma in definitiva credo che per dire di no ad ogni forma di eutanasia, occorra riscoprire il senso e il significato della sofferenza.
FONTE: SIR