22/10/2015

Il segreto della felicità nel ritmo dei più deboli

Proproniamo due articoli pubblicati nel mese di ottobre dall' agenzia Sir a firma del Prof. Tonino Cantelmi: Il segreto della felicità nel ritmo dei più deboli - Mutevolezza dell'esserci e crollo del "per sempre"

Il segreto della felicità nel ritmo dei più deboli Fonte: Agenzia Sir del 20 ottobre 2015 Gli uomini e le donne del terzo millennio, al tempo della rivoluzione digitale e della tecnocrazia onnipotente, sono più felici? Il benessere, nell’epoca del dominio tecnologico, è aumentato? Secondo i dati Oms sembrerebbe di no: già ora, ma soprattutto nei prossimi 5 anni, la patologia più invalidante nel mondo è e sarà la depressione. Se poi consideriamo l’impressionante esplosione delle dipendenze comportamentali, cioè di quelle ragnatele comportamentali che avviluppano l’uomo postmoderno in comportamenti ripetitivi, trasformandolo in schiavo del sesso, della tecnologia, del gioco o dell’acquisto, allora ci rendiamo conto che qualcosa non quadra. Non quadra ancora di più se riflettiamo sulla precocissima e veloce erotizzazione dei bambini (la metà dei bimbi a 11 anni ha già incontrato la pornografia) e sulle sue conseguenze sui cortocircuiti dell’intimità fallita, sul precoce impatto con sostanze stupefacenti e alcolici (basta pensare al binge drinking e alla sua diffusione fra gli adolescenti) che non può non alterare lo sviluppo cerebrale verso forme di discontrollo e di disorganizzazione, sull’incremento dei bambini che hanno necessità di cure psichiatriche (quasi uno su dieci nei primi otto anni di vita) e, in definitiva, sul fatto che un adulto su quattro nel corso di vita ha bisogno di cure psichiatriche. Insomma, sono dati impressionanti, che sembrano alludere ad un generale incremento del malessere e della fragilità. “Mio figlio era depresso e ammalato. Depresso per aver perso il suo lavoro dopo 30 anni di attività. Oggi molte persone perdono il proprio posto. C’è chi reagisce in un modo e chi reagisce in un altro. Lui ha voluto portarsi via l’affetto di tutti i suoi cari”. Lo disse Romano Augusto Garattini, pensionato di 80 anni, padre dell’uomo che atterrito dalla povertà, sterminò la famiglia a Collegno e poi si uccise in modo estremamente cruento, dilaniandosi il torace con una decina di coltellate. Il 2014 si aprì così e la successiva catena di suicidi eclatanti aprì nei mesi successivi una riflessione sulla felicità e la povertà. La crisi non sta facendo altro che accelerare qualcosa che sta già avvenendo: l’umanità sarà sempre più depressa e io direi più infelice. Forse perché la postmodernità tecnoliquida ci immerge in connessioni continue, ma ci fa sempre più soli? Forse perché l’eccesso di individualismo, sostenuto da un narcisismo autoreferenziato senza pari, sta facendo saltare la solidarietà e la vicinanza fra le persone? Forse perché una competizione esasperata non può che accentuare le debolezze individuali? Forse perché una eccessiva velocità rende tutto troppo superficiale? In fondo però lo sappiamo: qualcosa non funziona. Lo avvertiamo dall’incremento del disagio psichico, dal sempre più pressante senso di smarrimento dell’uomo tecnoliquido, dalla ricerca affannosa di vie brevi e immediate per la felicità, dall’aumento del consumo di alcol e di stupefacenti negli stessi opulenti ragazzi della società di Facebook, dall’affermarsi di una cupa cultura della morte, dall’inquietante incremento dei suicidi, dal malessere diffuso. Qualcosa dunque non funziona sia a livello individuale che sociorelazionale: la liquidità dell’identità, con tutte le sue conseguenze, non aumenta il senso di felicità dell’uomo contemporaneo. Alcuni studi sul benessere fanno osservare che la felicità non è correlata con l’incremento delle possibilità di scelta. Questi dati fanno saltare una convinzione che sembrava imbattibile. La felicità dunque non è correlata con l’incremento delle possibili scelte dell’uomo, ma gli stessi studi correlano la felicità con il possedere invece un “criterio” per scegliere. Avere un criterio per scegliere rimanda ad altro: avere un progetto, delle idee, una identità. Ed ecco che il cerchio si chiude: il tema della postmodernità attuale è sostanzialmente il tema della rinuncia ad avere criteri (cioè dimensioni di senso ben definite). Ma questa rinuncia ha un prezzo: l’infelicità. Tutti questi dati, che sembrano preludere ad un incremento dell’infelicità, del malessere e della fragilità, ci impongono una riflessione più profonda, che può essere riassunta in una domanda: che società stiamo decostruendo e ricostruendo in tempo di crisi? Quale è la qualità umana della nostra società? Forse dovremmo riscoprire l’armonico ritmo dei più deboli, come autentico fondamento di una società nuova. E in definitiva se fosse proprio la riscoperta del ritmo dei più deboli e degli ultimi a salvare il mondo consentendo il ritorno dell’umano nella sua pienezza? Fonte Agenzia Sir   Mutevolezza dell'esserci e crollo del "per sempre" Fonte: Agenzia Sir del 5 ottobre 2015 “Esserci”, “esserci-con”, “esserci-per”: ecco la “progressione magnifica” che permette di partire da un Io (l’esserci), per passare ad un Tu (l’“esserci-con”) e infine giungere ad un Noi (l’“esserci-per”), dimensione ultima e sola che apre alla generatività, alla creatività e all’oblatività. In questa progressione però irrompono le formidabili componenti della società tecnoliquida: il narcisismo e la sua forma virale su base digitale, la tecnomediazione della relazione, l’amicizia “light”, a portata di “click”, le relazioni virtuali nelle loro varie declinazioni ambigue, l’ipersessualizzazione dell’infanzia e il mostruoso incremento della cyberpornografia, la “gamizzazione” immersiva (ogni attesa è invasa da giochi digitali e intere generazioni crescono con i video games), la ricerca di emozioni forti, la velocità estrema. Il punto di partenza della “progressione magnifica” dunque sarebbe l’esserci, cioè l’identità. Ma cosa vuol dire “esserci” nella società tecnoliquida? Le osservazioni condotte all’alba del terzo millennio, in piena postmodernità tecnoliquida, ci inducono a ritenere che esserci vuol dire oggi rinunciare a un’identità stabile, per entrare nell’unica dimensione possibile: quella della liquidità, ovvero quella dell’identità mutevole, difforme, dissociata e continuamente ambigua di chi è e al tempo stesso non è. In fondo la tecnologia digitale consente all’uomo e alla donna del terzo millennio di essere senza vincoli, di tecnomediare la relazione senza essere in relazione, di connettersi e di costruire legami liquidi, mutevoli, cangianti e in ogni istante fragili, privi di sostanza e di verifica, pronti ad essere interrotti. La crisi dell’identità maschile e femminile, per esempio, ne è l’espressione più evidente. La crisi dell’esserci ha una prima conseguenza. Se all’uomo d’oggi è precluso il raggiungimento di una identità stabile, che si articola e si declina nelle varie dimensioni, come in quella psicoaffettiva e psicosessuale, la conseguenza prima è che l’“esserci-con” (per esempio la coppia) assume nuove e multiformi manifestazioni. L’“esserci-con” non è più il reciproco relazionarsi fra identità complementari (maschio-femmina per esempio), sul quale costruire dimensioni progettuali nelle quali si dispiegano legittime attese esistenziali, ma diviene l’occasionale incontro tra bisogni individuali che vanno reciprocamente a soddisfarsi, per un tempo minimo, al di là di impegni reciproci e di progetti che superino l’istante. In altri termini oggi l’incontro tra due persone sempre più spesso si basa sulla soddisfazione narcisistica, individuale e direi solipsistica di un bisogno che incontra un altro bisogno, altrettanto narcisistico, individuale e solipsistico. Questo incontro si dispiega per un tempo limitato alla soddisfazione dei bisogni individuali e l’emergere di nuovi e contrastanti bisogni determina inevitabilmente la rottura del legame e la ricerca di nuovi incontri che sempre più avvengono in Rete. La fragilità dell’“essere-con” dei nostri tempi si evidenzia attraverso l’estrema debolezza dei legami affettivi, che manifestano un’ampia instabilità e una straordinaria conflittualità. L’uomo del terzo millennio sembra rinunciare alla possibilità di un futuro e sembra concentrarsi sull’unica opzione possibile, quella del presente occasionale, del momento, dell’istante. Ecco dunque la crisi del legame “per sempre”, che accompagna l’ineluttabile fragilità della relazione. Fatalmente, il trionfo dell’ambiguità identitaria, la rinuncia al ruolo e alla responsabilità che ne consegue, il ridursi dell’“esserci-con” all’istante e al bisogno momentaneo e individuale, mina nelle sue fondamenta l’“esserci-per”, cioè la dimensione generativa e oblativa dell’uomo e della donna. Per esempio, se decliniamo tutto ciò nell’ambito psicoaffettivo e psicosessuale, la rinuncia all’esserci (identità sessuale e relativi ruoli) non può non trasmettersi in una inevitabile mutazione critica della dimensione coniugale (“esserci-con”), che a sua volta fa precipitare in una crisi senza speranze la dimensione genitoriale (“esserci-per”). Infatti la transizione al ruolo genitoriale sembra divenire oggi una sorta di utopia: la rinuncia alla genitorialità o il suo semplice rimandarla nel tempo sono un fenomeno sociale tipico dei nostri tempi. Eppure qualcosa non funziona. Lo avvertiamo dall’incremento del disagio psichico, dal sempre più pressante senso di smarrimento dell’uomo tecnoliquido, dalla ricerca affannosa di vie brevi e immediate per la felicità, dall’aumento del consumo di alcol e di stupefacenti negli stessi opulenti ragazzi della società di Facebook, dall’affermarsi di una cupa cultura della morte, dall’inquietante incremento dei suicidi, dal malessere diffuso. Qualcosa dunque non funziona sia a livello individuale che sociorelazionale: la liquidità dell’identità, con tutte le sue conseguenze, non aumenta il senso di felicità dell’uomo contemporaneo. Alcuni studi sul benessere fanno osservare che la felicità non è correlata con l’incremento delle possibilità di scelta. Questi dati fanno saltare una convinzione che sembrava imbattibile. La felicità dunque non è correlata con l’incremento delle possibili scelte dell’uomo (una visione ovviamente molto legata al capitalismo), ma gli stessi studi correlano la felicità con il possedere invece un “criterio” per scegliere. Avere un criterio per scegliere rimanda ad altro: avere progetti, idee, identità. Ed ecco che il cerchio si chiude: il tema della liquidità è sostanzialmente il tema della rinuncia ad avere criteri (cioè dimensioni di senso ben definite). Ma questa rinuncia ha un prezzo: l’infelicità. Ecco perché la “magnifica progressione” dall’“esserci-con” all’“esserci-per”, e dunque il tendere al “per sempre” mantiene anche oggi, e direi soprattutto oggi, un alto valore di significato ed è persino affascinante, proprio per il suo portato anti-liquidità. Costruire dimensioni identitarie e di senso stabili e non ambigue, instaurare relazioni solide e che si dispiegano lungo progetti esistenziali che consentono l’apertura alla generatività e all’oblatività, sono ancora, in ultima analisi, l’unico orizzonte di speranza che si apre per l’uomo del terzo millennio, immerso nel cupo e doloroso paradigma della tecnoliquidità. Fonte: Agenzia Sir