03/01/2021
Le “voci” dello psichiatra e la metamorfosi da “pensatore” a “operatore”
Contributo di Giuseppe Bersani su"Rivista di psichiatria" 2020;55(6):380-384
Di GIUSEPPE BERSANI: Dipartimento di Scienze e Biotecnologie Medico-chirurgiche, Facoltà di Farmacia e Medicina, Sapienza Università di Roma
Probabilmente di Jaspers ce ne è stato uno solo, con la sua Psicopatologia generale pubblicata all’età di 30 anni. Ma dai tempi della nascita della psichiatria come disciplina scientifica, un aspetto fondamentale ha sempre contraddistinto la figura dello psichiatra da quella degli altri medici: la cultura. Cultura intesa non come semplice scelta personale, ovviamente condivisa con moltissimi altri medici non psichiatri, ma come condizione imprescindibile dello stesso essere psichiatra, nello stesso tempo vocazione e necessità di chi si confronta con la complessità dell’esperienza psichica umana e si prefigge, per quanto possibile, di “curarne” le aberrazioni.
Dall’origine della sua figura professionale lo psichiatra
è stato un “pensatore”
Da tutti i testi, i saggi, i manuali, i trattati della psichiatria dell’Ottocento e del Novecento, secoli dello sviluppo storico della psichiatria come disciplina scientifica, emerge, accanto alle descrizioni cliniche, alle classificazioni nosografiche, alle indicazioni di cura, il “pensiero” degli autori, l’impronta di menti riflettenti sulla natura stessa dell’oggetto del loro studio, rivolte a oltrepassare i limiti della loro enunciazione scientifica verso l’approfondimento sull’essenza della mente e sul rapporto tra mente e malattia mentale, dotate della capacità di sconfinare, arricchendosi e integrandosi, nei campi, avvertiti sotto vari aspetti affini, della psicologia, della filosofia, della sociologia, delle scienze naturali, dell’antropologia, della teologia.
Basta pensare alla platea dei discenti nella famosa immagine della lezione di Charcot alla Salpêtrière, raffigurata innumerevoli volte in copertine e illustrazioni di testi psichiatrici, per capire quale fosse, agli albori della psichiatria scientifica, la tipologia personale dei suoi cultori e quale apparisse la loro immagine agli occhi dell’opinione comune.
Tutte le correnti conoscitive dello scorso secolo, da quelle più strettamente legate alla clinica, a quelle ispirate alla scuola fenomenologica, alla psicoanalisi, alle scuole cognitiviste e relazionali, ecc., anche spesso diametralmente opposte tra di loro nelle considerazioni di base e nelle conclusioni delle loro teorie, si sono formate sul “pensiero” dei loro fondatori e soprattutto sul “pensiero” delle migliaia di psichiatri che, in qualunque contesto clinico svolgessero la loro attività, anche nella più repressiva e custodialistica dimensione manicomiale, tentavano di comprendere il pensiero dei maestri, di farne coscientemente propri i principii e i contenuti, di apportare anche i propri contributi originali e innovativi.
Da sempre, lo psichiatra è stato, certamente nell’immaginario collettivo ma anche quasi sempre nella realtà, un medico “colto”, in grado di applicare nella sua attività clinica la sua riflessione su di essa.
Le innumerevoli barzellette sullo psichiatra avulso dal mondo reale in quanto assorto nelle sue astratte riflessioni teoriche, spesso incomprensibili alla ignara gente comune, testimoniano nella percezione da parte di questa un aspetto obiettivo, umoristicamente enfatizzato, della realtà della sua figura.
Naturalmente, insieme e a monte di tutto questo, esisteva la “formazione”, esistevano i “maestri”, le “scuole”, i “fondatori”, i “predecessori”, i depositari di esperienze e conoscenze e gli ispiratori di un pensiero che ne garantisse la trasmissione e, insieme, l’approfondimento nelle successive generazioni di professionisti della mente.
Ma le realtà culturali mutano inarrestabilmente nel tempo e l’enorme accelerazione, sempre più potentemente in corso, dei cambiamenti scientifici, tecnologici, sociali e culturali che hanno caratterizzato tutto il mondo, soprattutto quello cosiddetto occidentale o almeno quello sotto l’influenza dei suoi modelli, nei decenni a cavallo tra XX e XXI secolo, con le loro inevitabili estensioni al campo della medicina e, quindi, anche della psichiatria, ha comportato un’evoluzione sostanziale, una vera metamorfosi, anche nella figura dello psichiatra, nella sua formazione, nella sua immagine, nelle aspettative e nelle richieste a lui rivolte da parte di opinione pubblica, organizzazioni sanitarie, società in senso generale.
Il contesto dell’assistenza psichiatrica in italia è fortemente rappresentativo del cambiamento in corso
Oggi, in modo sia implicito che esplicito, la richiesta rivolta allo psichiatra non è tanto di pensare quanto di agire. La riforma psichiatrica del 1978, con il faticoso superamento dell’istituzione manicomiale e la lenta nascita dei Dipartimenti di Salute Mentale, ha rappresentato storicamente l’inizio del processo di cambiamento. Fondata sul pensiero di Franco Basaglia e sulla sua potente riflessione, culturale e sociale più che medica, evoluta poi in un pensiero antipsichiatrico e involuta nella rigidità dell’ideologia, tanto che ancora oggi proporre critiche concettuali alla visione basagliana provoca lo stracciarsi indignato delle vesti di moltissimi psichiatri tuttora guidati dalla “«voce” internalizzata del Fondatore, la nuova organizzazione del sistema di assistenza psichiatrica ha sempre più posto lo psichiatra nel ruolo di realizzatore di un progetto predefinito, piuttosto che di protagonista critico del progetto stesso. I nostalgici rappresentanti del vecchio sistema (pensiamo all’“odio” di Mario Tobino verso la riforma basagliana) non hanno avuto gli strumenti dialettici e, soprattutto, la voce politica per influire sulla trasformazione in corso. Né è stata sufficientemente forte e ascoltata la voce dell’allora nascente “psichiatria biologica”, solo successivamente transitata nel sofisticato mondo delle neuroscienze, all’epoca oggetto di diffidenza ideologica e di sospetto di conservatorismo “organicista”.
Dopo i decenni che tale trasformazione istituzionale ha richiesto per raggiungere un adeguato grado di funzionamento organico nel moderno contesto dell’assistenza sanitaria, si è parallelamente consolidata la trasformazione dello psichiatra in “operatore”: “operatore dei servizi psichiatrici”, al pari di altre figure professionali di complementare ma diversa competenza e formazione.
Indipendentemente dalla vocazione personale, la richiesta rivolta allo psichiatra non è più quella di “pensare” ma di “operare”.
Questo processo trasformativo si è naturalmente ripercosso, in modo bidirezionale, sulla formazione dei giovani psichiatri e su organizzazione e finalità delle Scuole universitarie di Specializzazione in Psichiatria.
Archiviata l’epoca del rapporto paternalistico tra direttori/maestri e specializzandi, l’assetto e lo spazio di attività delle Scuole si sono trovati davanti a fattori assolutamente limitativi della loro autonomia e della loro stessa missione accademica.
Tra questi, in primis, l’abbraccio mortale delle Cliniche Psichiatriche con le Aziende Sanitarie, sia ospedaliere che territoriali, con le loro finalità totalmente indipendenti, quando non confliggenti, rispetto a quelle della didattica e della formazione, le loro richieste di impegno temporale soverchianti rispetto a quelle accademiche, la più o meno completa disattenzione, quando non diffidenza, verso gli impegni della ricerca, le loro terminologie, badge, budget, TSO, PTRP, UVRP, PDTA, SSRP, REMS, ecc., il linguaggio aziendalese, ostico, iniziatico, avulso sia dall’immediatezza comunicativa della vita reale che dall’obiettività della comunicazione medica e scientifica. La “voce” imperativa de “Il Direttore Generale”, rappresenta di fatto per molti psichiatri il vero termine di riferimento di attività e attese, “voce” interna che guida, anche inconsapevolmente, l’operato dei clinici e ne soffoca l’autonomia del pensiero e dell’azione.
A fronte di obiettivi formativi ufficiali a livello nazionale previsti per le Scuole, articolati e ambiziosi, quando non chiaramente irrealistici, si concretizzano nella maggior parte dei casi condizioni operative strutturalmente inadeguate al conseguimento reale, e non meramente formale, di tali obiettivi.
Questa tendenza procede in parallelo, sia in modo silente che esplicito, con il graduale svuotamento del ruolo formativo centrale delle Scuole universitarie (fenomeno condiviso con tutte le discipline mediche ma forse più “sensibile” per la psichiatria, in cui la dimensione dell’approfondimento teorico riveste un ruolo assolutamente principale), con il graduale passaggio di competenze alla “formazione sul campo”, in un’ottica formativa che privilegia l’esperienza clinica diretta alla conoscenza anche teorica derivata dall’abbinamento di studio accademico ed esperienza clinica stessa.
L’assegnazione di ruoli formativi a psichiatri, anche di grande valore clinico, professionale e manageriale, ma non in possesso della competenza didattica derivante dall’esercizio continuativo dell’insegnamento, dall’esperienza della ricerca e dalla verifica di entrambe nell’attività clinica, comporta progressivamente di fatto il superamento della formazione universitaria come momento centrale nello sviluppo delle competenze generali dei nuovi psichiatri.
Di fatto ancora, rinforza il passaggio dell’identità del giovane psichiatra da quella di “pensatore” a quella di “operatore”.
La recentissima decisione ministeriale, coincidente con l’emergenza dell’epidemia di CoViD-19, di immettere in ruoli assistenziali specializzandi del III e IV anno di corso, ben lontani quindi dal completamento accademico della loro formazione, imprime un’accelerazione per alcuni aspetti drammatica al processo di esautorazione dell’Università dal proprio ruolo formativo, affidato a istituzioni dotate di esclusiva competenza assistenziale. Tra le “abilità acquisite”, che le Scuole devono certificare in possesso degli specializzandi, quelle relative alla capacità di approfondimento teorico e di elaborazione e acquisizione personali sono minoritarie rispetto a quelle del “saper fare”, cioè del sapere “operare”. La “voce” impersonale del SSN contrae il tempo della formazione teorica e dello studio, il tempo del pensiero, rispetto a quello delle esigenze operative dell’assistenza.
“Affacciàti in psichiatria”. Così Gian Carlo Reda, Maestro dagli anni ’70 agli anni ’90 di generazioni di psichiatri romani, definiva i neospecialisti che faticosamente, al termine degli anni della formazione universitaria, facevano il loro ingresso nel mondo della professione, sottolineando in questo modo quanto l’essere psichiatra e il potere operare come tale fossero imprescindibilmente associati a esperienza, studio, riflessione ben più lunghi del periodo di insegnamento nelle Scuole.
“Gettàti nel mondo della psichiatria”. Così, parafrasando Heidegger, potremmo oggi definire i nuovi psichiatri, precocemente immessi nel campo del lavoro pratico, spinti a operare secondo direttive che prescindono dal loro effettivo grado di esperienza, di maturità e, soprattutto, di consapevolezza della propria identità culturale nel confronto con il mondo reale.
In questo caso, è la “voce” dell’Università a essere sempre più flebile, soverchiata da tutte le altre che dall’interno e dall’esterno guidano l’operare dello psichiatra.
Il corrispettivo di questo orientamento formativo è, negli psichiatri sia giovani che maturi, la comune tendenza allo scoraggiamento della riflessione personale e all’adeguamento acritico ai paradigmi clinici e nosografici. Quanti psichiatri si chiedono dove siano finiti, dal 2013, anno di pubblicazione del DSM-5, i pazienti affetti da schizofrenia paranoidea? Quanti si chiedono dove fossero, prima del 2013, i pazienti affetti da disturbo da disregolazione dell’umore dirompente? Gli esempi potrebbero essere numerosissimi, a testimonianza di un atteggiamento, prevalente soprattutto tra gli psichiatri operanti nei servizi territoriali, di rinunzia all’esercizio della riflessione personale e di accettazione passiva di visioni presentate come avanzate o innovative. L’ascolto della “voce” anodina del DSM-5 fornisce risposte predefinite a quesiti che non vengono neppure posti.
Anche l’acquisizione delle conoscenze fornite dalle neuroscienze, nel loro vertiginoso sviluppo degli ultimi decenni, avviene spesso in modo superficiale, stereotipo, a volte scettico, spesso limitato alle informazioni fornite dalle aziende farmaceutiche per attribuire un razionale scientifico all’impiego delle diverse classi di farmaci. Ma si tratta appunto di acquisizione, passivamente recepita, non di stimolo o propensione alla riflessione attiva. Quanti psichiatri si interrogano sul rapporto tra l’una o l’altra azione farmacologica a livello sinaptico o recettoriale e le modalità e i tempi di una risposta clinica individuale? Quanti si interrogano sull’esaustività dei modelli proposti, piuttosto che sulla loro solo parziale, spesso molto modesta, potenza esplicativa nella comprensione dei processi cerebrali alla base dei disturbi mentali? La “voce” asettica dell’informazione farmaceutica, per quanto di per sé corretta e scientificamente fondata, sottolinea gli aspetti funzionali ai singoli prodotti ma non stimola la visione d’insieme, provvedendo spesso lo psichiatra di un corpo di conoscenze rassicurante ma semplicistico, che frena la motivazione all’approfondimento sulle reali basi biologiche dei disturbi e dei trattamenti. Quanti psichiatri si interrogano su natura e funzioni del “mitico” BDNF, il fattore neurotrofico cerebrale, regolarmente chiamato in causa in ogni tentativo di proporre una qualunque spiegazione di qualunque azione di qualunque farmaco? Microdogmi neuroscientifici risultano sufficienti a giustificare l’assenza di ogni pensiero speculativo su di essi. La pratica della psicofarmacologia clinica, con la sua fondamentale rilevanza nella gestione di infinite realtà individuali, è prevalentemente fondata sull’accettazione di indicazioni ufficiali, rassicuranti modelli di buona pratica clinica, adeguamento a linee-guida. Di fatto, anche in questo caso, il pensare è spesso subordinato, o sostituito, dall’operare. Il ricorso all’esperienza o alla creatività personale, potenziale fonte di riflessione e oggetto di pensiero innovativo, trova il suo limite applicativo nell’evitamento di potenziali conseguenze medico-legali del proprio operato.
E qui si inserisce il ruolo di fattore limitante dell’azione individuale svolto dalle problematiche inerenti la responsabilità civile o penale dell’azione dello psichiatra. In un contesto storico in cui è massima la tendenza a chiedere conto in ambito giudiziario, sia da parte di pazienti e loro familiari sia delle istituzioni sanitarie stesse o della magistratura, di ogni possibile errore, omissione, reale o supposta malpractice, spesso amplificati dall’atteggiamento di aprioristica condanna assunto dalla stampa e dai social media, l’iniziativa individuale dello psichiatra, basata sul suo “pensiero“, lascia spesso il passo a condotte allineate con direttive, linee-guida ufficiali, ecc. E la “voce”, silente ma incombente, di un altro grande protagonista dell’esperienza professionale del clinico, presenza immanente degli incubi diurni e notturni di moltissimi psichiatri, “Il Magistrato“, assume di fatto il ruolo di scoraggiamento al pensare autonomo e di incentivazione all’operare secondo le modalità difensivamente più sicure rispetto a possibili implicazioni di responsabilità.
È evidente che in questo scenario potrebbe assumere un ruolo centrale il processo dell’aggiornamento. Ma il sistema degli ECM risponde in realtà molto più all’obiettivo dell’adempimento burocratico del conseguimento dei 150 crediti triennali, piuttosto che a reale interesse ai vari convegni o corsi FAD o aggiornamenti aziendali necessari per questo, spesso individuati più per la praticità dell’esecuzione o per la gratuità o il costo meno elevato o per il numero di crediti rilasciati che per il loro contenuto tematico. Del resto, la partecipazione ai convegni è spesso prevalentemente limitata a quella ai grandi eventi nazionali e comunque anche ristretta, nella realtà, a quelli in cui in qualche modo può essere coperta la quota di iscrizione. Ormai da tempo terminato il Decennio del Cervello ed esaurita la relativa spinta promozionale delle aziende farmaceutiche che lo aveva caratterizzato in rapporto allo sviluppo di un grande numero di nuovi farmaci, il ruolo in tal senso svolto da queste appare estremamente ridimensionato e con esso, di fatto, anche la disponibilità delle opportunità formative, almeno per quanto attiene al campo delle neuroscienze e della psicofarmacologia. D’altro lato, l’attitudine prevalente alla partecipazione passiva agli eventi formativi, congressuali o no, ne riduce fortemente il ruolo di situazioni stimolanti in modo reale la riflessione e la speculazione individuali. La “voce” burocratica del Ministero ricorda agli psichiatri il loro obbligo, ma non ne stimola allo stesso tempo interesse, motivazione e scelte legate a un “pensiero” formativo svincolato dal rischio di perdere l’abilitazione all’“operare”.
Riflessione e speculazione che, al contrario, sia per psichiatri maturi che giovani, anche negli anni stessi del corso di Specializzazione, appaiono spesso presenti nell’approfondimento ricercato nell’ambito delle diverse Scuole o Società di psicoterapia, in tutte le loro multiformi varianti. Il “pensiero” dello psichiatra appare ancora spesso vivace e stimolato all’interno di queste entità, nei loro corsi, nei loro seminari, nei loro training, ecc. Ma la situazione è paradossale. Perché nella grandissima maggioranza dei casi si tratta di contesti scientifici e culturali fortemente isolati gli uni dagli altri quando non reciprocamente contrapposti, autoreferenziali, chiusi al confronto con le altre correnti di pensiero in un frequente atteggiamento di diffidenza, di svalutazione, di squalifica, spesso ancorati in modo rigido e acritico alle teorie dei Fondatori, frammentati anche in rapporto alle teorie dei successivi epigoni di questi, scoraggianti alla formazione al di fuori del contesto di appartenenza, fortemente gerarchizzati nella loro struttura interna, anche a volte con organizzazione di tipo realmente settario. In altri termini, il luogo dell’apparente residua vitalità del pensiero dello psichiatra risulta essere quello in cui di fatto è, apertamente o meno, più limitata la libertà stessa del pensiero, subordinata all’accettazione delle “regole” concettuali dell’ambito di appartenenza. La “voce” severa dei Fondatori, in tutte le sue possibili articolazioni, guida dall’interno il pensiero di chi vorrebbe liberamente approfondirne gli insegnamenti, incanalandone quindi la libertà soggettivamente avvertita nei binari stretti delle regole della Scuola e subordinando all’adeguamento a queste la facoltà di operare nell’attività psicoterapeutica.
Il distacco si configura conseguentemente per molti psichiatri come la principale modalità emotiva di partecipazione al proprio lavoro, con un grado di incremento parallelo all’anzianità nella professione, ma sempre più presente fin dall’inizio di questa. Distacco che si traduce spesso in rinunzia all’impegno personale nella difesa di ipotesi, convinzioni od opinioni scientifiche, in una sorta di relativismo conoscitivo che sconfina automaticamente verso forme di relativismo estese ai temi etici. E questo “relativismo etico” rappresenta forse uno degli aspetti più salienti del profilo culturale dello psichiatra attuale, cioè la rinunzia, o l’evitamento, all’impegno, o all’esposizione, rispetto a problematiche etiche su cui avrebbe invece profonda competenza per esprimere opinioni e per assumere posizioni. I temi etici sono regolarmente assenti nel dibattito tra psichiatri e tra psichiatri e rappresentanti di altre discipline o, semplicemente, dell’opinione comune. In un momento storico in cui, con posizioni spesso anche bellicosamente contrapposte, la riflessione bioetica è intensissima nel dibattito culturale pubblico e politico, la voce dello psichiatra è, salvo pochissime eccezioni, assente, anche su tematiche di sua esplicita o potenziale competenza. Quale psichiatra o società scientifica ha espresso la sua posizione, favorevole o contraria, sul tema drammatico e paradossale del suicidio assistito dei pazienti depressi? Quale psichiatra o società scientifica ha espresso la sua posizione sui rischi psichiatrici associati alla potenziale liberalizzazione della cannabis? Quale psichiatra o società scientifica ha espresso la sua posizione sulla teoria del gender, sulle possibili conseguenze dell’adozione in coppie omogenitoriali, ecc.? Un relativismo etico non frutto di un pensiero, ma anzi determinato dalla rinunzia a questo, nella realtà spesso sostenuto dal timore di apparire non aderenti ai principi acriticamente giudicati più diffusi e accettati, espressione piuttosto di un “pensiero debole” guidato dalla “voce” interna e pubblica, personale e sociale dell’ideologia del “politicamente corretto”.
E questa “debolezza di pensiero” al di fuori delle aree di stretta rilevanza clinica si traduce in una realtà sempre più evidente nel panorama generale. Nei dibattiti culturali, letterari, televisivi, di stampa, mediatici, la presenza dello psichiatra è scarsissimamente rappresentata, il suo ruolo e la sua voce evanescenti o assenti. Davanti a fenomeni sociali, tendenze culturali, eventi delittuosi, il dibattito pubblico è quasi sempre tra filosofi, politici, giornalisti, opinionisti, psicologi, criminologi, sociologi, sacerdoti, tuttologi. La figura dello psichiatra, che pure avrebbe ancora in teoria competenze e strumenti culturali e scientifici profondi per entrare in moltissimi dei temi di dibattito attuale, viene sempre meno percepita utile, e quindi non ricercata, nell’approfondimento di aspetti critici del vissuto sociale. Non per rifiuto della medicalizzazione di questi, ma per minore riconoscimento dello spessore intellettuale che, al di fuori dell’ambito medico, ne caratterizza oggi il profilo culturale. Per la percezione e la constatazione che la peculiarità strutturale dello psichiatra, il pensiero, è sempre più coartata nella sua funzione tecnica della operatività. La grande maggioranza delle comparse televisive o mediatiche di psichiatri sono limitate a finalità divulgative superficiali: i sintomi, le cure di alcuni disturbi mentali, “i sintomi del disturbo bipolare, come si riconosce, chi deve curarlo..,” ecc., in modo non dissimile da come un reumatologo può esercitare attività divulgativa sull’artrite reumatoide, un dermatologo sulla psoriasi, un diabetologo sul diabete, ecc. È difficile comprendere in quale misura questo sia in relazione al cambiamento di percezione della figura dello psichiatra da parte dell’opinione comune e in quale misura sia in realtà lo psichiatra stesso a limitare o escludere la propria propositività pubblica, nell’ascolto di una “voce” denigratoria che lo spinge a riconoscere i suoi limiti e a non cimentarsi in terreni di dibattito sui cui temi avverte o teme di non possedere più gli strumenti necessari per essere all’altezza di altri più preparati o più aggressivi interlocutori.
E in tutto questo, soprattutto per gli psichiatri più maturi, si inserisce spesso, subdolamente ma in modo crescente nel tempo, la risposta emotiva dello scoraggiamento, del disamoramento verso la propria professione, della ricerca di interessi e impegni lontani da questa, dell’attesa del momento di potersi dedicare ad altro rispetto a essa. E un’altra “voce”, la “voce” dell’INPS, in un sentimento misto e indefinito di malinconia e di attesa di liberazione, scandisce monotonamente, sullo sfondo, gli anni, i mesi, i giorni che ancora mancano al pensionamento...
È evidente che tutto quanto sopra detto è sbagliato, oltre che ingiusto, se riferito alle singolarità individuali di tutti gli psichiatri. È evidente che esistono moltissimi psichiatri, giovani e maturi, ancora fortemente vocati alla riflessione, alla speculazione scientifica e intellettuale, all’approfondimento culturale all’interno e all’esterno della propria disciplina, all’impegno appassionato nella propria professione e ai suoi risvolti culturali ed etici.
Ma il fenomeno descritto è generale e riguarda purtroppo la realtà dell’evoluzione stessa della figura dello psichiatra, per come questa è percepita dallo psichiatra stesso e nell’opinione comune e per le mutazioni avvenute nell’evoluzione medica, nell’organizzazione sanitaria e nelle aspettative della comunità sociale. Questa in passato chiedeva allo psichiatra di “pensare” e in questo modo di affrontare e, per quanto possibile, risolvere i problemi legati alla malattia mentale. Allo psichiatra attuale viene richiesto di “operare”, indipendentemente dal presupposto di un non necessario pensiero riflessivo, nella finalità di risolvere secondo modalità tecniche e predefinite tutte le possibili situazioni inerenti i disturbi mentali.
La metamorfosi dello psichiatra da “Pensatore” a “Operatore” è completa.
In questo contesto, nella propria attività professionale quotidiana e, ancora di più, davanti a ogni tentativo di recupero di approfondimento, di autoconsapevolezza, di ruolo, di autonomia intellettuale e professionale, di orgoglio, di aspettative, di progetti, di sogni, lo psichiatra “sente le voci”: le “voci” delle ideologie, del Direttore Generale, del Servizio Sanitario, del Ministero, del Magistrato, delle aziende farmaceutiche, dei Padri Fondatori, del DSM-5, del politicamente corretto, dei sui denigratori interni, delle propria demoralizzazione, dell’INPS.... Un coro di voci, vissute in una mente parallela, quasi inconsapevole, come in un automatismo mentale, ognuna pronta a inibire ogni pensiero e iniziativa fondati su interesse e creatività personali, che lo costringono a operare nello spazio ristretto compreso tra i binari di un tecnicismo acritico e della responsabilità legale, in una progressiva riduzione della consapevolezza della propria identità e del proprio ruolo.
Negli anni ’70, Julien Jaynes, nel suo visionario saggio su “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, postulava, secondo un’interpretazione psicologica e storica affascinante, anche se assolutamente non verificabile in termini sperimentali, che nelle popolazioni antiche, fino alla fine del secondo millennio a.C., gli uomini agissero in modo automatico, privi di autocoscienza, guidati da “voci”, di re morti divenuti divinità, di predecessori, di guide e controllori onnipresenti…, e che solo il “crollo” di questa “mente bicamerale” dovuto al mutare delle condizioni di vita, segnato dall’affievolimento e dall’estinzione delle voci, avesse consentito il sorgere della coscienza, la consapevolezza di sé come individui, la capacità di agire sulla base dei propri desideri e dei propri obiettivi personali.
Sarebbe bello se oggi anche per lo psichiatra, in seguito a qualche cambiamento che, se non definire e prevedere, è almeno consentito auspicare, esito di uno sforzo residuo di ricerca della propria autocoscienza, si verificasse il “crollo” della sua composita mente parallela e delle sue “voci”, l’estinzione dell’automatismo della loro comparsa inibitoria, così da rendere possibile recuperare la consapevolezza di sé e dell’unicità del valore della propria professione, ritrovare l’impegno e l’orgoglio per il proprio ruolo medico, scientifico e sociale, riprendere in mano la libertà responsabile nelle scelte del proprio operare consapevole.
E ricominciare a pensare.
Fonte: Rivista di Psichiatria