11/04/2008
Il fatto - (Catt. e Ps.) di T. Cantelmi - (1/8)
Cattolici e Psiche «Il fatto» di Tonino Cantelmi Pubblicato su Psichiatri Oggi – aprile 2008, anno X, n. 2
Il 23 dicembre 2007 viene pubblicato, sul quotidiano Liberazione, l’articolo già citato, che peraltro era sottotitolato così: “Il racconto di un cronista che ha frequentato per mesi un corso organizzato da un gruppo ultracattolico” e ancora “Diario di sei mesi in terapia...”. A partire da questo articolo si sviluppano una serie di polemiche senza un reale fondamento. Infatti dall’articolo stesso si evince che il cronista non si è sottoposto ad alcuna terapia, né ha partecipato a fantomatici corsi. L’articolo inoltre inizia dal racconto inventato che il giornalista fa ad un sacerdote, “Gli dico che sono sposato, che ho un bambina e butto lì un paio di esperienze omosessuali legate alla mia adolescenza e la preoccupazione che quelle esperienze possano tornare a galla e rovinare il mio matrimonio”, e ancora gli racconta “del rapporto con mia madre rispetto alla quale tiro fuori un bel conflitto. […] del ruolo marginale di mio padre, dei rapporti sessuali con mia moglie, le relazioni interpersonali e così via.”. “Gli racconto di un mio compagno di liceo […] e di come quell’amicizia, col tempo e in modo del tutto inaspettato, si fosse trasformata in relazione sessuale. […] A quel punto tiro fuori una relazione fugace […] dopo il matrimonio. […] mi invento un «senso di sporcizia morale» che vivo e mi porto dentro tuttora”. In seguito a questo racconto il sacerdote invita il giornalista, fintosi in crisi esistenziale ed alla ricerca di aiuto, a pregare e poi gli consiglia di rivolgersi ad uno psichiatra per valutare i problemi psicologici riferiti. Difficile ritenere inappropriato il comportamento del sacerdote. Ovviamente il tam tam mediatico traduce questo incontro come un “colloquio selettivo”. Così il finto paziente giunge nel mio studio e mi definisce “il guru italiano dei guaritori di gay” o “il guru italiano della terapia riparativa”. Il racconto è sempre lo stesso. Viene quindi inviato da una psicologa per una valutazione psicodiagnostica (al finto paziente vengono somministrati test piuttosto comuni quali il MMPI-II ed il Rorscharch). Nel corso di questi colloqui il racconto è più o meno lo stesso: “[…] racconto … del mio rapporto conflittuale con mia madre, delle assenze di mio padre e aggiungo che ogni tanto, da piccolo, venivo scambiato per bambina”. Mentre compila i test il giornalista si sforza di dare di sé un’immagine “omosessuale”, scegliendo in modo accurato le risposte, come se le persone omosessuali dessero risposte diverse ai test che valutano la personalità e la salute mentale dei pazienti. In fondo è convinto che si trattino di test atti a valutare l’omosessualità. Il tam tam mediatico traduce tutto questo come “il modo per definire il grado di omosessualità”. Infatti riguardo il test MMPI-2 il giornalista afferma: “Forse chi sceglie di fare il fioraio, secondo loro, ha una predisposizione a diventare un po’ checca” e poi, riguardo le tavole di Rorscharch “[…] mi lancio sforzandomi di vedere peni, vagine, ani e così via. Individuo anche un paio di feti appesi per il cordone ombelicale. Dò il peggio di me, cercando di convincere la dottoressa che la mia sessualità è particolarmente deviata, talmente corrotta e omosessuale da meritare le sue cure”. Mentre compila il test MMPI-II vede una giovane signora ed un adolescente nella sala d’attesa. Dice: “Sono madre e figlio. […] Non posso saperlo, ma potrebbe benissimo trattarsi di un ragazzino forzato dalla madre per arginare, almeno finché è in tempo, la «propria devianza omosessuale»”. Ovviamente si tratta di voluta deformazione della realtà: nessun paziente viene sottoposto a terapie di questo tipo, ma basta questa osservazione perché si lanci la notizia che sottoporrei minorenni a “terapie forzate”. Nel caso specifico chiarirò che si trattava di un adolescente con problematiche ossessive caratterizzate da una ampia compulsività e da una imponente ragnatela di rituali che gli rendono la vita impossibile. Tornato da me dopo i test, dai quali emerge ovviamente un profilo specifico a causa delle risposte forzate e dei racconti inventati, gli viene quindi consigliata una “terapia individuale”, che però eseguirà per un solo colloquio, “il giovane psicologo mi fissa un nuovo appuntamento. Io lo saluto e sparisco. Non metterò mai più piede in quello studio”. E quale terapia gli avrei consigliato? Nonostante le pressanti richieste di terapia riparativa da parte del finto paziente, gli ho consigliato una psicoterapia cognitiva. Infatti è da tempo che sostengo che il concetto di riparativo, benché di lunga tradizione psicoanalitica, abbia una valenza ideologica pari a quello di “terapia affermativa” e che in realtà sia necessario parlare di accoglienza del dolore, di corretta decodifica della domanda e di psicoterapia, senza alcun pre-giudizio. Dall’analisi del contenuto dell’articolo, qui riportato, non è possibile trovare traccia che confermi quanto affermato nei titoli dell’articolo stesso. Il giornalista non ha mai seguito un percorso terapeutico di sei mesi: ha svolto solo un incontro di conoscenza con me, una valutazione psicodiagnostica e successivamente è stato inviato da uno psicoterapeuta cognitivo, con il quale ha eseguito un solo colloquio. Un totale di quattro incontri. Il tam tam mediatico, compresi alcuni autorevoli rappresentanti dell’Ordine degli Psicologi, lungi dal decodificare correttamente il titolo, lo hanno accolto integralmente: ecco, si è finto gay (davvero?), gli è stata diagnosticata l’omosessualità (sono proprio così ingenuo?) ed ha fatto sei mesi di terapia riparativa ultracattolica ed è stato costretto a recitare rosari e preghiere. Eppure in nessuno di questi quattro incontri è possibile trovare traccia di una terapia ultracattolica, né tanto meno il giornalista ha partecipato o visto alcun corso per guarire dall’omosessualità, né nel report dei test c’è un qualche accenno all’omosessualità, né tantomeno nel mio studio si recitano rosari. Sarebbe interessante capire come una sgangherata inchiesta abbia generato una così potente deformazione della realtà.. Al contrario al finto paziente è stato offerto un percorso rispettoso e scientificamente valido, basato su un colloquio di accoglienza, una valutazione psicodiagnostica, un incontro di restituzione della psicodiagnosi ed un invio ragionato per una psicoterapia individuale di tipo cognitivo. Nonostante un’attenta lettura avrebbe permesso di rendersi conto dell’infondatezza dei titoli e delle altre ipotesi sparse ad arte nell’articolo da un giornalista in malafede, sicuro di fare lo scoop della sua vita (ed oggi sicuro di dover rispondere civilmente e penalmente ad un Tribunale), il processo mediatico ha comunque avuto inizio, giungendo subito alla mia condanna. Vorrei inoltre sottolineare come in realtà il racconto fornito dal finto paziente e, questo sì, da lui riportato nel testo della sua presunta inchiesta, non identifichi chiaramente un orientamento omosessuale (non basta infatti aver avuto due rapporti sessuali con altri uomini per potersi identificare tale). Se a questi due rapporti associamo il vissuto emotivo e la storia passata che descrive, è lecito ipotizzare che quei comportamenti possano essere dovuti ad altre cause, e non obbligatoriamente all’orientamento sessuale. Inoltre dalle documentazioni relative ai test, in nessun punto si affronta il tema dell’omosessualità, ma l’esame diagnostico evidenziò alcuni aspetti narcisistico-istrionici. In altri termini in nessun modo risulta che io abbia effettuato una impropria diagnosi di omosessualità e abbia proposto una terapia riparativa. Anche se il giornalista dichiara questo, è anche vero che leggendo lo stesso articolo uno psicologo di media cultura si renderebbe conto che le interpretazioni del giornalista/finto paziente, sulla base degli stessi fatti da lui riportata, è del tutto impropria. Se posso capire che il tam tam mediatico abbia fatto una lettura superficiale, risulta difficile comprendere come mai autorevoli rappresentanti dell’Ordine degli Psicologi, come vedremo fra poco, non siano riusciti ad effettuare una decodifica delle opinioni (tante) del giornalista contraddette dai fatti (pochi) che lo stesso riporta nella fatale inchiesta.