09/03/2010
Pregiudizio di molti psicologi nei confronti della dimensione religiosa
Pregiudizio di molti psicologi nei confronti della dimensione religiosa Daniele Mugnaini L’American Psychological Association (APA) nel 2007 ha firmato una risoluzione sul pregiudizio religioso[1]. In questo documento si condanna ogni pregiudizio o discriminazione contro individui o gruppi sulla base delle loro convinzioni o pratiche spirituali e religiose, sia passate che presenti[2]; quindi si raccomanda a tutti gli psicologi di intraprendere azioni per contrastare questo tipo di pregiudizio[3], senza rinunciare a contrastare gli effetti psicologici negativi che possono provenire da atteggiamenti religiosamente informati[4] quando esistano incontestabili evidenze[5] o dati empirici a riguardo[6]. In questo senso, incoraggia la disseminazione di dati empirici relativi ai correlati psicologici di variabili legate alla spiritualità e alla religione[7], e auspica spazi di incontro tra il “mondo” della psicologia e quelli della spiritualità o religione, per superare possibili incomprensioni e tensioni reciproche[8], e comprendere e promuovere l’ingente potenziale benefico che la religione e la spiritualità possono avere[9]. Centrale a questa risoluzione è la convinzione circa la specificità metodologica, epistemologica, storica e filosofica della psicologia come disciplina scientifica. La Psicologia non è legittimata nel giudicare contenuti teologici e relativi alla fede religiosa[10]. Ne consegue l’indicazione alla presa di coscienza da parte degli psicologi -dell'illecita pratica professionale di giudicare, in quanto psicologi, credenze e pratiche religiose[11] (se non nei termini suddetti, relativi cioè a credenze che comportano violenza antisociale[12] o ai dati empirici a disposizione), quindi -dell'opportunità di condurre la ricerca, gli assessments e i trattamenti sensibili alla dimensione spirituale e religiosa del paziente (o cliente)[13]. La dimensione religiosa influenza infatti in modo importante[14] e sottostimato[15] il comportamento della maggioranza delle persone); -dei limiti del ruolo dello psicologo nell’affrontare temi di interesse religioso[16], sia a livello clinico che teorico. Il documento ricorda come siano proprio delle valutazioni negative (più o meno consapevoli, più o meno limitate alla dimensione emotiva ed affettiva) ad alimentare atteggiamenti pregiudiziali, anche nei confronti di chi ha o si presenta con convinzioni e valori spirituali o religiosi. Recentemente[17], sul Journal of Theoretical and Philosophical Psychology (edito sempre dall’APA), Slife BD e Reber JS hanno denunciato la presenza di un subdolo pregiudizio anti-religioso diffuso nella psiologia e fra gli psicologi. Si sottolinea infatti che l’approccio scientifico allo studio del comportamento e dei processi mentali dell’uomo non si identifica con la prospettiva filosofica del naturalismo (o materialismo), il quale non è affatto indifferente o neutrale, ma anzi incompatibile, con la prospettiva teistica (o religiosa). Chi si identifica con la prospettiva naturalistica ritenendola neutrale e al di sopra delle parti rischia di agire in modo pregiudiziale nei confronti di chi opta invece per la prospettiva teistica. Per fare alcuni esempi: una prospettiva religiosa, nello specifico quella cristiana, può ritenere che Dio abbia creato e regga continuamente le leggi naturali (oggetto di studio della scienza), ma anche che quello stesso Dio si riservi di intervenire attivamente e liberamente nella natura e nella storia a partire dalla sua relazione con gli uomin; ancora, una prospettiva religiosa può ritenere che la realtà vera, o meglio la verità, corrisponda sì alle leggi del mondo naturale, ma anche che essa possa incarnarsi e relazionarsi personalmente con gli uomini. Ovviamente uno psicologo naturalista rischia di identificare con la psicologia stessa giudizi di disprezzo nei confronti delle suddette posizioni filosofico-religiose, considerandole o tacciandole pregiudizialmente come irragionevoli e irrilevanti al processo di crescita (nella libertà e nella conoscenza di sé), di educazione e di guarigione. Ecco quindi teorizzazioni, ricerche, assessment e interventi psicologici (e psicoterapeutici) generalmente poco o per niente sensibili alle credenze (consce, preconsce e inconsce) e agli atteggiamenti religiosi. Per restare sull’esempio, al fine di aiutare la comprensione di sé o la guarigione, non si ritiene importante indagare cosa il cliente o il paziente pensi che sia la verità e il vero bene, o quale sia per lui il potere attivo della divinità di relazionarsi personalmente con lui, trasformandone la storia. Confondendo scienza con naturalismo si viola la ragionevole e raffinata disposizione dell’APA, perché: -si agisce ignorando i dati empirici relativi ai correlati psicologici positivi di alcune variabili legate alla spiritualità e alla religione, ossia si impediscono spazi intrapsichici di incontro tra il “mondo” della psicologia e quelli della spiritualità o religione, al fine di superare possibili tensioni interne e riscoprire il potenziale benefico che la religione e la spiritualità possono avere; -si giudicano, in modo illecito, (implicitamente o esplicitamente) contenuti teologici e relativi alla fede religiosa del cliente o del paziente; -ci si ostina a condurre una ricerca, assessments e trattamenti insensibili alla dimensione spirituale e religiosa del paziente (o cliente). [1] Resolution on Religious, Religion-Based and/or Religion-Derived Prejudice. Adopted by APA Council of Representatives, August, 16 2007. http://www.apa.org/about/governance/council/policy/religious-discrimination.pdf [2] The American Psychological Association condemns prejudice and discrimination against individuals or groups based on their religious or spiritual beliefs, practices, adherence, or background. [3] The APA encourages all psychologists to act to eliminate discrimination based on or derived from religion and spirituality… [and] encourages actions that promote religious and spiritual tolerance, liberty, and respect, in all arenas in which psychologists work and practice, and in society at large. [4] The American Psychological Association encourages individuals and groups to work against any potential adverse psychological consequences to themselves, others, or society that might arise from religious or spiritual attitudes, practices, or policies. [5] Religious motivations and rationales for violent conflicts, social oppression of religious outgroups or norm violators, and the reinforcement of prejudicial stereotypes are readily adducible. [6] Psychologists can appropriately speak to the psychological implications of religious/spiritual beliefs or practices when relevant psychological findings about those implications exist. [7] The APA encourages the dissemination of relevant empirical findings about the psychological correlates of religious/spiritual beliefs, attitudes, and behaviors to concerned stakeholders with full sensitivity to the profound differences between psychology and religion/spirituality. [8] Contemporary psychology as well as religious and spiritual traditions all address the human condition, they often do so from distinct presuppositions, approaches to knowledge, and social roles and contexts, and while these differences can be enriching and may stimulate fruitful interaction between these domains, they also can present opportunities for misunderstanding and tension around areas of shared concern. [9] Religion and spirituality can promote beliefs, attitudes, values, and behaviors that can dramatically impact human life in ways that are enhancing of the well-being of individuals or groups. [10] It is important for psychology as a behavioral science, and various faith traditions as theological systems, to acknowledge and respect their profoundly different methodological, epistemological, historical, theoretical, and philosophical bases. Psychology has no legitimate function in arbitrating matters of faith and theology, and faith traditions have no legitimate place arbitrating behavioral or other sciences. While both traditions may arrive at public policy perspectives operating out of their own traditions, the bases for these perspectives are substantially different. [11] Psychologists are encouraged to recognize that it is outside the role and expertise of psychologists as psychologists to adjudicate religious or spiritual tenets. [12] Religion and spirituality can promote beliefs, attitudes, values, and behaviors that can dramatically impact human life in ways that are diminishing of the well-being of individuals or groups. [13] Understanding and respecting patient/client spirituality and religiosity are important in conducting culturally sensitive research, psychological assessment, and treatment. [14] Religion is an important influence in the lives of the vast majority of people, is ubiquitous in human cultures, and is becoming increasingly diverse throughout the world. [15]Evidence exists that religious and spiritual factors are underexamined in psychological research both in terms of their prevalence within various research populations and in terms of their possible relevance as influential variables. [16] Psychologists are encouraged to be mindful of their distinct disciplinary and professional roles when approaching issues of shared concern with religious adherents. [17] Alife BD e Reber JS (2009). Is there a pervasive implicit bias against theism in psychology? Journal of Theoretical and Philosophical Psychology 29(2): 63-79. (A me segnalato dall’amico e collega Francesco Cutino, psicologo AIPPC Roma) Daniele Mugnaini 09 marzo 2010