15/11/2008
Orientamento sessuale egodistonico - relazione convegno 11.10.08
Orientamento sessuale egodistonico: le problematiche terapeutiche Intervento del prof. Paolo Cruciani
Convegno - 11.10.2008 - Roma relazione pubblicata nel portale dell'Ordine degli Psicologi del Lazio |
Comincerò con i tre articoli del Codice Deontologico degli psicologi italiani che forniscono le linee di base per affrontare, da tale punto di vista, le questioni oggetto di questo incontro. Sono tre testi che è utile ricordare integralmente data la rilevanza delle posizioni che riassumono. Art. 3 Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace. Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale. Lo psicologo è responsabile dei propri atti professionali e delle loro prevedibili dirette conseguenze. Art. 4 Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità. Lo psicologo utilizza metodi e tecniche salvaguardando tali principi, e rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi. Quando sorgono conflitti di interessi tra l’utente e l’istituzione presso cui lo psicologo opera, quest’ultimo deve esplicitare alle parti, con chiarezza, i termini delle proprie responsabilità ed i vincoli cui è professionalmente tenuto. In tutti i casi in cui il destinatario ed il committente dell’intervento di sostegno o di psicoterapia non coincidano, lo psicologo tutela prioritariamente il destinatario dell’intervento stesso. Art. 5 Lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione professionale e ad aggiornarsi nella propria disciplina specificatamente nel settore in cui opera. Riconosce i limiti della propria competenza ed usa, pertanto, solo strumenti teorico-pratici per i quali ha acquistato adeguata competenza e, ove necessario, formale autorizzazione. Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti e i riferimenti scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente e/o utente, aspettative infondate. Mi propongo di mostrare, in una forma molto sintetica, come il Codice Deontologico degli psicologi tracci le linee di base dell’attività psicoterapeutica – come di quella psicologica in generale – fornendo i principi a partire dai quali poter affrontare i problemi posti dalle situazioni cliniche a cui è dedicato questa giornata di studio. Prenderò in considerazione alcuni punti che possono servirci per chiarire la complessa questione affrontata. Su temi così delicati, e che coinvolgono il senso stesso delle nostra professione di psicoterapeuti, è ragionevole aspettarsi che ci siano diversità di punti di vista, ma questo deve essere da stimolo per sviluppare un dibattito fecondo. Fin dal primo incontro, i nostri principi ci aiutano ad avviare in modo eticamente corretto la relazione con un nuovo paziente. Nella diagnosi, compito la cui responsabilità ricade, come sappiamo, su psicologi e medici, le figure professionali che hanno acquisito la competenza necessaria, un essere umano non viene incasellato in una “gabbia” teorica che lo impoverisce dei tratti che gli sono propri e che lo rendono unico. La prima manifestazione di rispetto è quella di non omologarlo tramite categorie nosografiche, che sono necessarie per orientarsi e rendere più chiare le comunicazioni fra colleghi, nella clinica e nella ricerca, ma che ci lasciano liberi di perfezionare continuamente l’immagine che ci facciamo del paziente e del suo mondo nel corso dello svolgimento della relazione terapeutica. Se consideriamo la questione dell’egodistonicità dal punto di vista deontologico l’argomento è complesso. E’ l’Io che “ha ragione”, ed è l’inclinazione che lo disturba a dover essere modificata, o è proprio l’istanza egodistonica ad esprimere una parte della mente che è stata sacrificata da meccanismi di difesa che hanno operato in modo eccessivo strutturando un Io che deve, invece, essere lui coinvolto in un processo trasformativo e maturativo, al termine del quale l’elemento disturbante sarà integrato nella sua nuova e più ampia esperienza di vita? E’ chiaro, per chi abbia esperienza clinica, che è solo nel drammatico corso della ricerca di autonomia che si compie in ogni psicoterapia, che si potrà decidere quale sarà, o meglio saranno, le parti della mente che si trasformeranno. Se un credente, patologicamente fissato ad una dipendenza da genitori che hanno sempre avversato in modo autoritario ogni ricerca di spiritualità e a cui, di conseguenza, non può opporsi senza sentirsi in colpa, avvertisse come un sintomo da cui liberarsi proprio la sua spinta a cercare una fede, dovremo operare colludendo con il sentimento di egodistonicità? O non riterremo, piuttosto, che risieda proprio nella inclinazione vissuta come egodistonica l’espressione di una spinta alla maturazione, alla crescita ed alla realizzazione autonoma di sé? Non possiamo in alcun modo ritenere che l’egodistonicità, di per sé, sia il carattere che definisce ciò che un processo terapeutico deve modificare. Torna di nuovo la necessità di concepire la terapia come un processo di liberazione dai vincoli dell’angoscia, direzionato a creare le condizioni per una scelta valoriale il più possibile libera. Se il terapeuta va oltre i limiti di questo compito ed entra in aspetti troppo strettamente connessi con l’esperienza religiosa, spirituale e valoriale, non rischia di sconfinare nella insostituibile funzione del sacerdote e del direttore spirituale? Non desideriamo, in alcun modo, attivare polemiche “verbali” ma riteniamo che il termine “psicoterapia riparativa” possa creare fraintendimenti. Non siamo d’accordo ad usare questo termine in quanto implica l’idea che ci sia qualcosa di “sbagliato” a priori in una personalità, che non sarebbe condotta lungo un cammino di progresso nell’autonomia delle scelte, ma dovrebbe adeguarsi ad un modello predefinito come “normale”. Le stesse obiezioni ci sembrano, ovviamente, applicabili anche al concetto di terapia “affermativa”. Proporre un obiettivo predefinito, dato a priori, significa, di fatto, proprio negare gli esiti dello svolgersi del processo trasformativo che, man mano che procede, ridefinisce e determina in modo nuovo lo scopo del rapporto terapeutico. Una terapia è un processo di sviluppo che non può avere finalità che vincolino i risultati da raggiungere. Perché questo processo sia possibile dovremo fronteggiare due difficoltà che sono immanenti in ogni lavoro psicoterapeutico: il pericolo di una collusione, altrettanto grande di quello di un contrasto, di un conflitto, fra terapeuta a paziente, non elaborabili nel lavoro della relazione terapeutica. Nell’uno e nell’altro caso la libertà di espressione delle emozioni e dei pensieri – fondamento di ogni psicoterapia – è seriamente compromessa. Non esiste, lo sappiamo bene, nessuna garanzia assoluta di neutralità, ma esiste l’impegno etico a rispettare i valori dell’altro, e la prescrizione, clinica e scientifica, di lavorare consentendo al paziente di prendere coscienza delle diverse istanze che si attivano in lui, e delle possibilità di trovare una composizione fra le forze in gioco, all’interno di una relazione in cui è totalmente riconosciuto il suo diritto di esprimersi e di scegliere. Queste condizioni possono realizzarsi sia con un terapeuta che condivide le scelte religiose del paziente, che con uno che non le condivide, che ha scelto una diversa visione del mondo e ha organizzato la gerarchia delle sue opzioni etiche secondo un sistema di valori differente: il problema è se si è o non si è un terapeuta degno di questo nome. Nell’articolo “Il presidente dell’Arcigay ascolti i miei pazienti” Tonino Cantelmi riferisce di situazioni su cui occorre pronunciarsi in modo chiaro. “Che rispondere alla lettera che proprio oggi mi giunge da un uomo della Basilicata che si sente ‘violentato’ perché il suo terapeuta lo pressa per la separazione coniugale che invece contrasta con i suoi valori più profondi? Ne vogliamo parlare? Davvero nessuno ha mai preso in esame le pazienti che aderiscono con convinzione a movimenti ecclesiali e che sono profondamente turbate da terapeuti che non rispettano il loro codice valoriale?" (newsletter del 15 gennaio 2008 dell’Ordine degli Psicologi del Lazio) Parliamone eccome! E proprio dal punto di vista della deontologia. Se le cose sono andate in tale maniera questi sono soltanto, e prima di tutto, e soprattutto, degli psicologi incompetenti, e non intendo violare gli articoli 33 e 36 del Codice deontologico dato che di questi colleghi non vengono rivelati i nomi. Qui non è in gioco il problema delle interferenze dei valori del terapeuta, qui non c’è una questione riconducibile, per citare ancora le parole di Tonino Cantelmi – peraltro del tutto condivisibili in linea di principio – al fatto che la neutralità è impossibile come è sostenuto “dall’epistemologia contemporanea che ha mutato la nozione di realtà e di osservatore, e che ha finito con il rendere sempre più insostenibile qualsiasi ricerca della validità della conoscenza indipendentemente dal soggetto conoscente.” (“Cattolici e psiche” in Psichiatri oggi, n. 2, aprile 2008, p. 11) Qui si pone la questione epistemologicamente più semplice, ma eticamente non meno rilevante, di sapere come persone, a tal punto prive di conoscenze cliniche e deontologiche, abbiano avuto l’autorizzazione ad esercitare una professione che comporta un così grande senso di responsabilità. Come ho già osservato, è pericolosa l’una e l’altra alternativa: sia l’interferenza di valori non condivisi che la collusione che può essere indotta, per esempio, dal timore di entrare in contrasto con un terapeuta che ha una visione del mondo che coincide con la nostra. Come recitano gli articoli del nostro Codice deontologico, ambedue mettono in forse il conseguimento di quella matura autonomia nella conduzione della propria vita che è la finalità, non solo di un percorso terapeutico, ma di ogni intervento professionale di uno psicologo, nella clinica, come nel campo dell’educazione e del lavoro... RELAZIONE COMPLETA fonte: http://www.ordinepsicologilazio.it